Giuseppe Mastromatteo: uso la sintesi per ottenere un messaggio universale
Giuseppe, arte e advertising, due mondi che ti appartengono. Ti è mai capitato di dover scegliere?
Nasco con l’advertising e, quando ho avuto la possibilità di fare solo l’artista, alla fine non l’ho fatto. Ho scelto di mantenere entrambe le cose. Sono due componenti che in qualche modo si parlano, l’una non può prescindere dall’altra. Tanti mi dicono che dovrei scegliere, che dovrei essere puro. A me viene da dire: ma chi è puro oggi? Tantissimi sono nati con una doppia o tripla anima. Siamo tutti migranti, ci si muove. Siamo persone contemporanee, che significa essere più cose contemporaneamente.
A me viene da dire: ma chi è puro oggi? Tantissimi sono nati con una doppia o tripla anima. Siamo tutti migranti, ci si muove.
Il tuo lavoro quotidiano ti permette di restare con i piedi per terra.
È un grande lusso. Mi dà anche la possibilità di non avere lo stress di produrre. Se dovessi fare l’artista avrei l’ansia di produrre arte. Sono molto sereno con quello che faccio e sono continuamente stimolato dai nuovi progetti che realizzo.
Ti viene detto che facendo solo arte saresti più focalizzato?
Quando l’ho fatto, per un anno e mezzo, non sono stato più focalizzato, mi sono perso. Ho perso un po’ di fuoco. Il modo in cui mi esprimo non è legato al tempo che passo facendo arte. In realtà, durante il tempo che passo a fare altro, ho sempre le finestre aperte sul mondo dell’arte. Non credo molto nella figura dell’artista chiuso in sé stesso.
Per questo ti definisci un osservatore privilegiato?
Assolutamente sì. Anche il modo in cui produco non ha nulla che fare con l’artista che si chiude nello studio. Le mie sono delle sessioni di lavoro. Non occupo il mio tempo nello studio, uso lo studio quando ho bisogno di esprimermi. In realtà, per me produrre arte sta nella parte che dedico alla ricerca. Non è nell’opera in sé che si realizza il mio lavoro, non è nello scatto fotografico, ma è come arrivo al risultato che mi interessa. Il mio lavoro si realizza in tre giorni, tutto è a monte.
Come nasce un tuo progetto, così concettuale, sul piano strettamente pratico?
C’è molta osservazione. Faccio moltissima ricerca online, parlo con le persone, guardo il lavoro degli altri, compro il lavoro degli altri. Casa mia è piena d’arte, se potessi vivere, farei solo scambi. Non so quante di queste cose entrino nel mio lavoro. Ho scelto, dal punto di vista meramente pratico, di guadagnare da una parte e dall’altra di tenermi il lusso di poter fare quello che voglio. La libertà molte volte si traduce in fare quello che vuoi, nel mio caso è mantenere questo equilibrio tra quello che faccio e quello che voglio fare.
Se non avessi il riscontro delle vendite, sentiresti completato il lavoro di artista?
Se avessi dovuto guardare alle vendite, mi sarei già fermato. La prima serie di Indepensense l’ho venduta, anzi, diciamo bruciata. La seconda, meno. La terza ancora meno e così la quarta. In realtà faccio quello che mi sento di fare. L’ultima serie di Homogenic è molto difficile, è scura, sono ritratti che ti guardano. Sto andando in un mondo in cui forse il mercato mi seguirà meno, ma io sono felice di fare questo percorso. Non vorrei focalizzarmi e far diventare una cifra stilistica quello che lo era qualche anno fa. Questa evoluzione è coraggiosa.
Le persone ti conoscono per ciò che hai fatto, è difficile iniziare a fare altro. È questo il problema di chi fa arte.
Intanto io non sono un fotografo. Amo la fotografia, ho uno studio fotografico, sono appassionato di tutto quello che riguarda la fotografia. ma non passerei mai la mia vita a fare il fotografo. Mi piace l’immagine bidimensionale, la potenza della foto, la possibilità di comunicare velocemente quello che hai in testa. La mia matita oggi è la macchina fotografica, ma domani potrebbe essere qualsiasi altra cosa, la scultura, il video.
Mi piace l’immagine bidimensionale, la potenza della foto, la possibilità di comunicare velocemente quello che hai in testa.
La sintesi, caratteristica delle tue opere, riesce davvero a raccontare temi complessi come l’identità umana?
Da un lato la sfida che mi sono sempre dato è quella di raccontare tutto subito. Uso la sintesi perché voglio ottenere un messaggio universale, non di nicchia. È molto più facile essere di nicchia che essere aperto a tutto l’audience che vuoi raggiungere. Qui prevale quindi il mondo della comunicazione. Per me è importante che l’opera arrivi velocemente, e poi che ti faccia sorgere delle domande. È un doppio passaggio.
La tua esperienza in questo tipo di comunicazione, hai lavorato prevalentemente su grandi audience e poca nicchia, ti ha dato gli strumenti per ottenere questi risultati.
Ormai le dinamiche della comunicazione sono sedimentate, sono dentro di me. Sicuramente quella parte mi aiuta a comunicare più velocemente con le persone. In generale, mi accorgo ogni giorno che l’arte che è rimasta, spesso, è quella nata per raccontare a tutto il mondo il pensiero dell’artista. Nel mondo dell’arte, io apprezzo chi arriva subito, da Andy Warhol a David Hockney. Le loro sono opere che hanno un racconto profondo, ma sono eseguite in modo molto divulgativo e popolare.
Ti assumi rischi alti nel voler comunicare a tutti.
L’ultimo lavoro è più di nicchia. Il primo lavoro, la prima serie di Indepensense, nel 2008, è esattamente ciò che è dichiarato. Mi piacerebbe andare in una direzione un po’ più colta ma senza dimenticarmi chi sono.
L’estetica ha una funzione forte, in tutto questo?
Sì, ha una funzione fondamentale. È un mio filtro, anche una cifra se vuoi. Per come sono fatto io, per cosa amo nella vita, nelle cose che scelgo e nelle cose che guardo. È importante anche la piacevolezza dell’opera, per me non potrebbe essere altra cosa. Devo partire da una tela, nel mio caso la pelle delle persone, che deve avere canoni estetici su cui posso lavorare. Quando le persone mi chiedono di fare a loro delle opere, la cosa non funziona. Questi lavori funzionano perché fotografo gli ideali di persona, non le persone. Parto da una base molto alta di pelle, di proporzioni, di fisicità. Per me è importante avere davanti all’obiettivo qualcosa che corrisponda al mio di vedere il corpo.
Quando le persone mi chiedono di fare a loro delle opere, la cosa non funziona. Questi lavori funzionano perché fotografo gli ideali di persona, non le persone.
Questi canoni così contemporanei non rischiano di datare la tua opera?
Possono cambiare le proporzioni, ma se guardo una foto di Man Ray, gli ideali di bellezza sono rimasti tali e quali. In ogni caso, quel tipo di bellezza data e segna un momento storico, non sentirà il tempo invecchiando, ma datandolo. Potrà invece invecchiare la tecnica, probabilmente tra quarant’anni guarderò queste foto e penserò alla tecnica ingenua che ho utilizzato. Probabilmente non avrò più bisogno di scattare, magari stamperò in 3D.
Perché tutti noi chiediamo la rappresentazione della realtà a qualcosa, la fotografia, che non può darcela?
La fotografia a me permette di ricreare il mio mondo. A me la realtà in fotografia interessa poco. Quello che mi interessa è la mia realtà.
Sei interessato a distinguere tra buona e cattiva fotografia?
Sono molto affascinato dalla fotografia, sono critico perché ogni tanto vedo cose che non vanno bene, però sono molto più attratto dalla comunicazione che può darti la fotografia. Nella fotografia c’è una parte estetica che mi interessa molto, questo non significa che deve essere bella, ma che deve prendere degli stilemi che corrispondono al mio modo di vedere le cose.
Da sempre, Oliviero Toscani ha giudicato molto bene il tuo lavoro. Vi accomuna la sintesi?
L’uso della sintesi di Toscani è quello che mi sempre affascinato, ha usato la fotografia per dire in maniera prepotente e urlata il suo modo di vedere il mondo. Ha lasciato una grandissima impronta sull’arte contemporanea, su un certo modo di fare fotografia, di esasperare la sintesi. Sicuramente lui è stata una persona capace di raccontare in modo molto forte quello che aveva da dire, la fotografia era la cristallizzazione di un pensiero.
Le tue opere non hanno nulla a che fare con la documentazione, ma riescono ad essere strettamente connesse con il momento storico. La fotografia, anche quella che nulla ha a che fare col sociale, deve nascere dall’osservazione del mondo per come è in questo momento?
Dev’esserci sintesi. Per me dev’essere tutto canalizzato da questo tipo di estetica. Al Paris Photo lo scorso anno ho visto un lavoro straordinario, erano gli ultimi pasti dei condannati a morte. Quel lavoro poteva essere fatto in un carcere, ma l’autore ha preferito fare una messa in scena di quel lavoro, ha usato un bank, le luci. Quel lavoro è quasi un trucco, il risultato sono nature morte rinascimentali che sanno raccontare una storia molto forte. È con la semplicità e la sintesi che si veicola un sentimento e una storia tragica. È questo che mi affascina.