Alessia Glaviano: nessuna immagine parla da sola
Alessia, che cosa deve saper guardare un photoeditor oggi?
In Italia il photoeditor esiste da pochi anni e spesso il suo ruolo è diverso da giornale a giornale. In alcuni giornali il photoeditor commissiona direttamente i servizi ai fotografi, mentre da noi a Vogue Italia è il nostro direttore Franca Sozzani a scegliere i fotografi con cui ha un rapporto diretto, quindi il nostro lavoro di photoeditor è più di ricerca immagini, archivio, idee e scouting. Per fare questo mestiere dovrebbe esserci una grandissima cultura dell’immagine, che non viene solo dallo studio della fotografia, ma anche del cinema, di tutte le arti visive e dei mutamenti della società. Il photoeditor dev’essere in grado di captare le evoluzioni dell’estetica prima degli altri, deve avere il polso di tutto ciò che succede intorno e trasferirlo nella scelta delle immagini.
Per fare questo mestiere dovrebbe esserci una grandissima cultura dell’immagine, che non viene solo dallo studio della fotografia, ma anche del cinema, di tutte le arti visive e dei mutamenti della società.
Attraverso quali mezzi tu osservi questi cambiamenti?
Leggo tantissimo e, devo essere sincera, soprattutto testate estere. Ogni giorno seguo fra gli altri, il New York Times, il Guardian, il New Yorker, Il Time, il British Journal of Photograph. Li seguo principalmente su internet e, quando possibile, a pagamento.
Oggi l’editoria riesce ad essere una buona palestra per un fotografo?
È ovvio che il panorama sta cambiando velocemente. È in atto da tempo una crisi dell’editoria stampata a cui corrisponde però una crescita del digital e dell’online. Sono convinta che non siano ancora state sfruttate tutte le opportunità del publishing on line. Internet, ad esempio, permette ai fotografi di fare cose come il crowd founding per finanziare i propri progetti. Credo che si stia spostando sempre più il focus dai grandi brand all’individuo, nel senso che il web consente la self promotion, con i suoi lati positivi e negativi.
Parlare al proprio pubblico, fare le cose per conto proprio, significa la fine di riviste come Vogue?
La mia idea è che brand come Vogue resteranno. È un giornale patinato, la cui fruizione cartacea è ben diversa dall’online. Determinati tipi di giornale non spariranno mai, altri probabilmente sì, e ci troviamo nel bel mezzo di questa rivoluzione.
Ci si sposta dai grandi brand all’individuo anche per quanto riguarda i nomi dei fotografi?
Sicuramente sì. È così per i giornalisti e per i fotografi, è così per chiunque. Il fotografo può avere un brand alle spalle che gli dà credibilità, ma poi può avere una sua base di consenso, persone a cui piacciono le foto che pubblica e che lo seguono senza passare dal grande giornale. Un tempo per essere notato dovevi comunque passare attraverso canali poco accessibili, oggi non più.
Parliamo di un altro tuo grande interesse: il fotogiornalismo. Credi che per un fotografo, oggi, sia più accessibile il fotogiornalismo o la fotografia di moda?
Non si possono paragonare. In entrambi i casi si usa la macchina fotografica ma sono cose del tutto diverse. Il reportage è un one man show, mentre la moda è sempre un lavoro di squadra. Se nel reportage sei bravo, basti tu. Se nella moda sei bravo, non basti tu, hai bisogno di un team di persone altrettanto brave di cui tu devi essere il regista. C’è un livello enorme di complessità e una quantità di dettagli che il fotografo di moda deve essere in grado di controllare. Steven Meisel è un grande fotografo di moda perché capisce la moda nel suo insieme.
Se nel reportage sei bravo, basti tu. Se nella moda sei bravo, non basti tu, hai bisogno di un team di persone altrettanto brave di cui tu devi essere il regista.
Il web, senza i suoi limiti di spazio, permette di tornare a raccontare storie e a costruire reportage?
Ma certo. Un mezzo quando nasce da un predecessore impiega un po’ di tempo per emanciparsi, ed è facile che all’inizio imiti il mezzo da cui deriva. Le possibilità sono molte e ancora inesplorate. Il potere dell’immagine fissa è insostituibile rispetto all’immagine in movimento, e sul web intorno all’immagine fissa possono nascere contenuti che la carta non consente.
Pensi che sul web le fotografie siano trattate bene?
Spesso no. E questo è un problema che hanno anche molti giornali italiani, al di là del web. Ci sono ancora testate che non pubblicano i nomi dei fotografi. È un problema enorme in Italia, la mancanza di rispetto per la fotografia.
Che tipo di fotografia si sta facendo oggi?
Lo definiremo tra qualche anno, è troppo presto, stiamo iniziando a capire solo ora gli anni ’00. Sicuramente mi aspetto qualche cosa di nuovo, questa estetica alla Juergen Teller e Ryan McGinley, mi ha un po’ stancata. A me piace vedere una fotografia intelligente, che vada oltre la trovata.
Quest’anno sei stata in giuria al World Press Photo. Che cosa è stato premiato dell’immagine di John Stanmeyer?
Mi ha fatto molto piacere che abbia vinto una fotografia che si apre a diverse letture e ragionamenti. Questo aspetto, che molti vedono come un difetto, secondo me è invece uno dei punti di forza di quell’immagine. Molti pensano che la fotografia debba dirti esattamente che cosa rappresenta, ma non credo assolutamente che sia così. Nessuna immagine parla da sola.